Hate Speech 2.0: odiare a faccia scoperta

Assistere a scene violente può provocare forti sensazioni, identificandosi, ad esempio, con l’aggressore o aggregandosi ad una campagna di incitamento all’odio per sentirsi parte di un gruppo, esorcizzare gli istinti negativi in forma collettiva, dando il proprio contributo attraverso il commento o la condivisone del contenuto violento o anche solo come spettatore silenzioso. Invero, le diverse pratiche di esposizione e consumo della violenza e dell’odio online possono influenzare la codifica e l’interpretazione di alcuni comportamenti, intralciando la corretta interpretazione, ad esempio, del danno arrecato alla vittima.

Il fenomeno dell’Hate speech, inteso come espressioni d’odio e, più in generale, come comunicazione ostile sta proliferando nel web più che mai. Appare interessante sottolineare come, in questo momento storico di compressione dei diritti costituzionalmente garantiti a fronte dell’emergenza sanitaria, molti utenti sono costretti, ancora una volta, nelle loro case. Questo stato di cattività ha prodotto un uso ancor più massivo delle tecnologie, indistintamente dall’età dell’utenza, considerate al pari di un “anti-stress”, come strumento di alleggerimento delle tensioni personali. Forme espressive ostili, violente e prevaricatrici, alimentano il pregiudizio verso gruppi più vulnerabili, o comunque minoritari, consolidano stereotipi disfunzionali e devianti, alimentano vere e proprie guerre verbali celandosi dietro al richiamo di valori morali più alti[1].

Dobbiamo considerare questo compulsivo e deviante utilizzo dello smartphone come un vero e proprio processo di catarsi per l’utente. Il soggetto si purifica dalle frustrazioni per il tramite del linguaggio d’odio, pulisce le sue preoccupazioni sull’altro diverso da lui. Tutto questo, come premesso, amplificato da cause ambientali e sociali più complesse del solito.

Facciamo riferimento alla costrizione dei giovani in case che, per tutti ormai, hanno preso le sembianze della palestra, della scuola, del gruppo dei pari. Tutto questo non senza l’utilizzo delle nuove tecnologie, capaci di metterci in contatto potenzialmente con il mondo intero. Ed ecco che ritroviamo modificate le agenzie educative ma non perché sostituite, bensì, perché mediate dal dispositivo. Proprio così, in questi momenti di quarantena e restrizioni, anche la noia cronica – che già solitamente affligge le nuove generazioni – si insinuava silenziosa portando ancor più gli utenti ad esporsi a contenuti violenti e ostili ovvero ad esprimersi in modo prevaricatore e denigratorio, senza più una logica, una ragione ma semplicemente per alleggerire le proprie frustrazioni e per rafforzare la propria identità, il proprio Io, ponendosi in una posizione di dominanza rispetto al prossimo.

Tutto questo ha portato le piattaforme social a muoversi per ridefinire le Policy in modo da poter far fronte all’esteso problema dell’Hate speech online, della proliferazione di contenuti violenti, spesso riconducibili a terrorismo ed estremismo.

“Il terrorismo, è comunicare, tanto che senza comunicazione non esisterebbe il terrorismo”

McLuhan

La costante spettacolarizzazione della violenza online ovvero la diffusione e la viralità dei contenuti violenti, come quelli di natura terroristica o comunque estremista (come i video in presa diretta di massacri durante gli attentati) non solo amplificano la portata di tali eventi, ma favoriscono la diffusione di tali contenuti e, dunque, aumentano la possibilità che gli utenti consumino detti contenuti. Ma non solo, i contenuti violenti si riferiscono sempre più spesso ad aspetti legati alla sessualità e all’orientamento sessuale: contenuti sessisti, transomofobici, e ancora inneggianti a razzismo, fascismo e nazismo sono ormai ovunque.

Facebook per primo, nell’autunno 2019, ha fatto riferimento a sistemi automatizzati, basati su algoritmi e intelligenza artificiale, impiegati per riconoscere in tempo reale in contenuti in questione. Poco dopo si è allineata anche la piattaforma Instagram inserendo la nuova funzionalità “alert”, ovvero un avviso simultaneo che comparirà allo scrivente qualora abbia rilevato un contenuto, frasi o parole, di tipo offensivo o ostile nei confronti di altri utenti. Seppure la funzionalità non sarebbe in grado di impedire la pubblicazione o eliminare direttamente il contenuto/frase/parola offensiva o violenta, avvisando l’utente può indurlo a riflettere sull’azione intrapresa, cercando così di imporsi sul processo disinibitorio proprio dell’uso del web. In coda anche Twitter che ha vietato discorsi che disumanizzano gli altri in base alla religione o alla posizione sociale. Quest’anno Twitter come tutti, ha compreso che non era abbastanza, così ha aggiornato ancora le policy per aggiungere, tra gli argomenti di discriminazione, età, disabilità e malattie.

Questo perché è ormai chiaro siamo all’odio 2.0: non si basa più, solo, su un pregiudizio rispetto ad una caratteristica della vittima ma viene esternato verso chiunque indistintamente. “Il cyber-odio non coincide più nell’odiare qualcuno o qualcosa ma odiare e basta”[2]. Un esempio in questo senso è il fenomeno dello Zoombombing, ovvero il fenomeno in cui persone intervengono durante webinar, video-conferenze o incontri di vario tipo, su Zoom o in altre piattaforme di streaming, fanno ingresso al fine disturbare, denigrando e inveendo contro i partecipanti, anche condividendo materiale offensivo. Questo ingresso indesiderato è spesso volto a condividere materiali razzisti, sessisti ma anche semplicemente a disturbare condividendo immagini e messaggi violenti, osceni e addirittura pornografici, per sabotare l‘intervento costruttivo e formativo.

Tutto questo è nocivo, non solo per chi è l’oggetto dell’attacco d’odio ma anche per tutti noi spettatori costantemente esposti a contenuti offensivi e violenti, portandoci ad uno stato di assuefazione. Siamo, ormai, tutti assuefatti alla violenza e all’odio online e questo porta, soprattutto le nuove generazioni a sviluppare una certa tolleranza per la quale, come nella dipendenza da droghe, la sopportazione alla “dose” di violenza consumata diviene gradualmente sempre più elevata richiedendo “dosi” sempre più consistenti.

Altra componente interessante, sintomatica del particolare periodo storico che stiamo vivendo, è legata alle possibilità aperta a tutti gli utenti di poter avviare delle dirette in varie piattaforme social, come Instagram e TikTok. Questa nuova modalità di comunicazione può essere esperita potenzialmente sulla maggior parte delle piattaforme social ma è possibile riscontrare un’alta frequenza di casi collegati alla piattaforma social Instagram. Quest’ultimo – a differenza di Facebook – consente ad un bacino potenzialmente infinito, e non solo agli utenti “amici”, di collegarsi per assistere alla diretta dell’utente che la avvia. Le dirette possono essere portate avanti dal singolo ovvero possono essere partecipate, massimo da un altro utente, previa richiesta di partecipazione. Questo consente una partecipazione, attraverso i commenti mandati in onda “live”, di molti utenti sconosciuti ai protagonisti della diretta. Questo può, in un certo senso, disinibire e facilitare l’utente che comunica messaggi d’odio e di violenza.

Tuttavia, sempre più frequentemente, stiamo osservando come queste dirette si stiano trasformando in una sorta di “rage room” 2.0. le c.d. “stanze della rabbia”. Si entra senza chiedere permesso, ci si mette comodi e si inveisce brutalmente ed indistintamente contro tutti gli utenti che capitano a tiro. Con una ulteriore evoluzione interessante, tanto a livello psicologico quanto a livello criminologico. Se fino ad oggi l’anonimato era considerato il dito dietro il quale il cyber-criminale si nascondeva, agendo sotto falso nome ovvero con nickname o pseudonimi, attualmente possiamo considerare questa prassi in parte abbandonata. Ci troviamo dinanzi a soggetti “a volto scoperto” che prevaricano, inveiscono e denigrano utenti senza aver paura di ledere la propria reputazione ma, al contrario, soddisfatti delle azioni perpetrate in quella session di vessazioni reciproche perché, in qualche modo, si sentono liberati dalle frustrazioni e rafforzati nel proprio Io.

A tal proposito, non appare azzardato parlare di Hate Speech 2.0: una evoluzione del fenomeno in cui la prassi non è nascondersi ma, al contrario, ci si mette letteralmente la faccia. Attentare alla reputazione altrui diviene più importante di salvaguardare la propria: odiare online per affermarsi denigrando il prossimo. La nuova peculiarità dell’odio 2.0 parrebbe essere, infatti, quella di non ritenere necessario lo sfruttamento dell’anonimato perché convinti che Internet, inteso quale “nuovo domicilio digitale” degli utenti, sia il luogo in cui tutto è lecito, tutto è esternabile, tutto è possibile senza incorrere in sanzione alcuna, né penale né sociale.

Se prima si sfruttava la comunicazione mediata per commentare e odiare sotto falso nome o in anonimato oggi l’odio è talmente normalizzato e diffuso, a livello di comunicazione e di stato d’animo collettivo, che anche le ultime remore sono svanite. Pensiamo alla comunicazione d’odio verso i migranti, di cui spesso si rendono protagonisti anche gli esponenti politici: l’opinione pubblica si muove, in massa, sollevando una valanga di commenti indignati e feroci. Questa, tuttavia, è un’opinione rapida e temporanea, non supportata da una reale e concreta informazione o da un pensiero strutturato, ma momentanea, data dal flusso di pensieri, il pensiero del gruppo. Questo, supportato da un’informazione, da parte dei media, altrettanto frettolosa e imprecisa, porta i cittadini a sviluppare credenze sempliciotte, imprecise e, soprattutto, piene di risentimento.

Le declinazioni del fenomeno dell’Hate Speech sono molteplici. Tra le tante, ad esempio, annoveriamo la pratica del flaming che si esplica nell’invio di messaggi violenti, mirati ad intimidire il prossimo e suscitare delle vere e proprie flame war, le “battaglie” verbali online. L’OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe) parla di definizione di “hate speech“[3] come espressioni pubbliche discriminatorie, di “hate crimes” e condotte discriminatorie, riconducibili alla categoria dei “delitti d’odio” ovvero “come una qualunque condotta che sia al contempo: a) autonomamente tipizzata da una norma penale di un determinato ordinamento giuridico e b) motivata dal pregiudizio basato su una specifica caratteristica della vittima oggetto del reato”[4]. Per “delitti d’odio” s’intendono, dunque, tutte quelle condotte basate essenzialmente su di un pregiudizio nei confronti della vittima, operata dall’autore dell’illecito, centrato su una caratteristica specifica, quale la “razza”, la lingua, la religione, l’etnia, la nazionalità, il genere, l’orientamento sessuale o l’orientamento politico.

Ricordate i fatti di Macerata del 2018, in cui il giovane Luca Traini sparava dalla sua auto in corsa a 6 persone, tutte provenienti dall’area sub-sahariana, ferendole? Il Traini, nell’immediatezza dei fatti, dichiarava come quel gesto fu una vendetta nei confronti della giovane Pamela Mastropietro – morta qualche mese prima a Macerata – per mano di Innocent Oseghale, un giovane nigeriano. Il clima d’odio razzista e xenofobo che in quei mesi si era alimentato sulle piattaforme social, anche da una certa politica portata avanti da lor signori, è stata benzina sul fuoco sempiterno dell’odio online.
Una delle caratteristiche dell’Hate Speech è proprio il nesso di causalità, come quella forte relazione che lega un atto ovvero un fatto e l’evento che ne consegue. Dimostrare il legame eziologico tra i messaggi d’odio online a contenuto razzista e xenofobo scagliati dalla morte di Pamela Mastropietro con la vendetta di Luca Traini ci restituisce la giusta dimensione della pericolosità del fenomeno dell’Hate Speech, un fenomeno che non si ferma nel mondo cyber, ma che da questo nasce per proiettarsi nel mondo reale con conseguenze e danni – talvolta- irreparabili.

Sulla scorta di questi fatti condannabili, nell’ottobre 2019 viene approvata dal Senato della Repubblica Italiana la mozione fortemente voluta dalla senatrice a vita Liliana Segre, che istituisce una Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio ed alla violenza, proprio a sostegno dell’importanza e della preoccupazione che deriva da tali condotte.

Ecco perché ci stiamo spostando dal concetto di fenomeno a quello di “delitti d’odio”. Ebbene sì, è di reati che si tratta. Non è possibile nascondersi dietro una libertà costituzionalmente garantita come quella della libera manifestazione del proprio pensiero se questi messaggi d’odio vengono scagliati come lance pubblicamente, essendo carichi di valenza istigatrice, violenta, ostile oltre che di propaganda razzista, terrorista e estremista. Tanto meno quando le esternazioni d’odio si trasformano in veri e propri delitti d’odio o condotte discriminatorie e denigratorie verso il prossimo, indistintamente dall’appartenenza di quest’ultimo ad un gruppo minoritario.

Pensiamo all’odio riversato verso “chi ha sbagliato” o “chi sbaglia”, ovviamente sempre secondo la concezione collettiva. Pensiamo ai giudizi meschini verso coloro che si sono comportate in maniera imprudente – come nei fatti di “Genovese” – pensiamo alla gogna di chi apparentemente è colpevole di un reato. Pensiamo al giudizio immediato e frettoloso rispetto a inchieste in corso o, peggio, processi penali ancora aperti. Basta l’opinione, banale e rabbiosa, di qualche ospite televisivo per trasformare quell’opinione in certezza e dipingere l’ipotetico colpevole come un mostro[5].

Ebbene è proprio questa comunicazione rapida e imprecisa, piena d’odio e di risentimento, una delle cause degli sconcertanti dati pubblicati dalla recentissima ricerca del Censis, secondo cui il 44% degli italiani sarebbe favorevole alla reintroduzione della pena di morte[6].

di Roberta Brega e Giulia Perrone


[1] G. Perrone, R. Brega, “Cyber-odio: normativa, analisi criminologica e rimedi”, Nuova Editrice Universitaria (NEU), Roma, 2019

[2] G. Perrone, R. Brega, “Cyber-odio: normativa, analisi criminologica e rimedi”, Nuova Editrice Universitaria (NEU), Roma, 2019

[3] https://www.osce.org/fom/hate-speech

[4] Decisione del Consiglio dei Ministri n. 9/2009 e successivamente ripresa nel report “Perseguire giudizialmente i reati d’odio. Una guida pratica” del 2016.

[5] V. Gheno, La trappola dell’odio sui social: quando scatta e perché, in https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/la-trappola-dellodio-sui-social-quando-scatta-e-perche

[6] La società italiana al 2020» del 54° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese: Il sistema-Italia? Una ruota quadrata che non gira, in https://www.censis.it/rapporto-annuale/il-sistema-italia-una-ruota-quadrata-che-non-gira

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