L’operatore penitenziario: il problema della strumentalizzazione

Come individuare gli atteggiamenti manipolativi del detenuto?

Siamo nell’ambito dell’osservazione scientifica della personalità del detenuto, gli operatori, nello specifico gli esperti ex art. 80 o.p., sono gli addetti a questo delicato e importante compito: valutare e favorire la revisione critica del detenuto definivo rispetto al reato commesso. Questo il duro compito affidato a psicologi e soprattutto criminologi clinici.

“si intende per criminologia clinica la utilizzazione sui singoli casi concreti delle nozioni
della criminologia generale, per fini diagnostici, prognostici e di
trattamento risocializzativo. La criminologia clinica è pertanto una
scienza pragmatica e sintetica che impiega conoscenze multidisciplinare per attuare o eliminare nei singoli individui le cause della loro criminalità e per prevenire la recidiva”

G. Ponti

Tale complessa attività è possibile attraverso l’utilizzo di quattro strumenti principali: il colloquio, l’esame psichico, l’analisi relazionale e comportamentale. Unitamente agli strumenti prescritti per legge, nonché alle forme di trattamento, sono necessari alcuni meta-strumenti, essenziali a fornire una buona fotografia del detenuto, quali la cooperazione con gli altri professionisti, essere in grado di indirizzare il giudizio dei detenuti, essere impersonali ma dotati di “empatia scientifica”. In termini di riforme il Legislatore dal 1986 non ha più provveduto ad un vero aggiornamento della legge penitenziaria, e quindi gli strumenti sono rimasti sempre gli stessi. Pertanto, sono stati gli operatori stessi che hanno dovuto reinventarsi e reinventare gli strumenti per adeguarli alle esigenze del carcere. Una volta nel lontano 1982, mi racconta uno dei più anziani educatori di Rebibbia, Massimo Izzo, il sistema era impostato ancor più gerarchicamente e quasi nessuno (es. l’insegnante, il capo d’arte etc.) era abituato a condividere informazioni sui detenuti. Con il tempo si è cercato di rafforzare le relazioni tra gli operatori, condividendo le informazioni ottenute attraverso la redazione di relazioni professionali. Proprio in questo modo si è arrivati ad ottenere un primo, importante, “meta strumento”, da aggiungere a quelli preposti per legge, quello della relazione con gli altri professionisti.

In secondo luogo, altra capacità imprescindibile per evitare la strumentalizzazione e mantenere una relazione equilibrata e produttiva, è quella di saper indirizzare il giudizio dei detenuti. Per quanto gli operatori siano gli addetti all’osservazione ed alla conseguente valutazione della personalità del detenuto, in realtà sono i detenuti stessi ad essere i più immediati valutatori delle prestazioni degli operatori. I detenuti, cercano di conoscere gli operatori più possibile, spesso quando richiedono di essere seguiti è per tale ragione che cercano un contatto: per esaminarne punti di forza e debolezze. In base a tali caratteristiche gli operatori vengono giudicati e classificati, studiati! Come peraltro accade anche nella vita di tutti i giorni. Gli operatori vengono, dunque, classificati quello “buono”, quello “cattivo”, quello “manipolabile”, quello “sensibile” etc… In tal senso appare essenziale, trovare l’equilibrio tra due dimensioni: mai risultare assenti, perché verrebbe meno il proprio dovere professionale, ma neanche troppo presenti, all’interno dei reparti del carcere. Tale accortezza è essenziale per muovere il giudizio dei detenuti in una posizione di equilibrio, i quali devono sapere che l’educatore o l’esperto è presente ma che non è a disposizione costante del detenuto, in modo da mantenere la necessaria autorevolezza e distanza, conquistando la stima ed il rispetto dello stesso.

Proprio lungo questo sentiero, si posiziona il terzo meta strumento, rappresentato dall’essere “impersonale” seppur accompagnato da un vero interesse verso i bisogni e le necessità del detenuto. Mantenere sempre i ruoli prestabiliti – operatore / detenuto – ed il distacco necessario affinché i detenuti non riescano a cogliere le debolezze dell’operatore in modo da tirarlo dalla sua parte e manipolarlo a suo piacimento. Tuttavia, come anticipato, tale distanza non deve tradursi in disinteresse o superiorità ma serve per impostare un rapporto solido che può, nel migliore dei casi, tradursi in un vero rapporto di fiducia e stima reciproca con il detenuto. Il professionista, soprattutto durante il colloquio con il detenuto, deve saper comprendere l’altro, metterlo in condizione di aprirsi e comunicare ciò che è dentro di lui, ovvero avere empatia, ma “empatia scientifica” (M. Izzo, G. Perrone). Empatia scientifica intesa come la capacità di coinvolgere emotivamente l’altro, comprendendone lo stato d’animo, senza, però, farsi coinvolgere, con metodo razionale, sistematico, rigoroso e fondato sull’esperienza diretta. Tale metodo, tuttavia, non deve mai far dimenticare che accoglienza, gentilezza e interesse restano ciò che può davvero favorire dapprima il cambiamento nell’altro e il reinserimento poi, ovvero ad un flusso sincero e proficuo di buoni propositi: senza un reale e forte coinvolgimento ed un’immensa passione dell’operatore mai nessun cambiamento sarà, a sua volta, reale e tangibile.

Nonostante i buoni propositi, la strumentalizzazione, resta un rischio concreto e tangibile. Attraverso lo studio effettuato con gli operatori trattamentali dell’Istituto penitenziario di Rebibbia, nonché attraverso la mia esperienza come esperta criminologa clinica ex art. 80 o.p. è possibile affermare che spesso ci si sente – e di fatto si è – strumentalizzati dal detenuto, soprattutto durante il colloquio individuale. Certo è che la strumentalizzazione è figlia dell’individuo, in quanto propria di ogni relazione umana; tuttavia in carcere è ancor più presente perché che si sviluppa secondo la logica dell’assistenzialismo e viene amplificata dalla costrizione dovuta alla condizione detentiva. Troppo spesso, il carcere, infatti, risponde ad una logica assistenzialistica che, in Italia, si identifica con il concetto di “regalia”. Assistenzialismo inteso nella sua accezione più negativa, come fenomeno degenerativo e dispersivo di risorse, che, nella dinamica carceraria, si ritrova nel concetto di benefico, inteso dal detenuto come “qualcosa che gli spetta”.

Sono stati individuati, sempre con l’aiuto dei colleghi di Rebibbia, degli indicatori di manipolazione del comportamento da parte del detenuto, quali: il silenzio; l’evasione; l’autolesionismo; l’aggressività etero diretta; la seduzione/il corteggiamento. Quest’ultimo, ovvero l’atteggiamento seduttivo, può essere ritenuto come un indicatore assoluto, rispetto al tentativo di manipolazione è quello della seduzione/corteggiamento. Tutti gli operatori intervistati sono, infatti, concordi nel ritenere che il soggetto affabulatore, ovvero colui che cerca di smuovere l’emotività dell’operatore, è un soggetto poco interessato al trattamento rieducativo, che usa il confronto con lo stesso per fini utilitaristici. Il detenuto ammaliatore, presenta sé stesso al meglio, narrando storie poco fondate o totalmente infondate e tenta di persuadere l’operatore, con atteggiamenti di eccessiva carineria. Tale dinamica è maggiormente ricorrente quando il colloquio è esplicitamente richiesto dal detenuto, in quanto è probabile chela richiesta sia mossa da una motivazione utilitaristica.

Alcune tips pratiche…Quali sono le soluzioni per poter contrastare la strumentalizzazione?

Un interessante prospettiva di risoluzione elaborata si fondata sul livello di distacco, sopra esposto, ovvero sulla chiara distinzione di ruoli, persone e finalità. E’ essenziale tenere distinti i ruoli – educatore / detenuto – ovvero chiarificare, fin da subito, i ruoli, evitando però atteggiamenti meramente inquisitori. In secondo luogo, è necessaria la distinzione tra le persone, non come individui ma come persone che hanno un cammino, futuro, ed un retro-cammino, un passato. E’essenziale, che il detenuto percepisca l’operato come una persona, con qualità, desideri ed aspettative e che si relazioni a lui con fiducia e rispetto. L’educatore si deve porre a modello di identificazione per il detenuto, quale persona umile ma non debole. In ultimo è necessario distinguere le finalità: l’educatore deve comportarsi con rigore per poter essere un modello per il detenuto ed il detenuto deve dimostrare di non volerlo strumentalizzare ma che vuole realmente tentare di non compiere nuovi reati.

di Giulia Perrone

Inutilizzabilitá della prova ed attualitá del canone male captum bene retentum

A fronte del potere di punire, possono le forme passare in secondo piano ed essere messe da parte? Questo è il primo grande quesito a cui rispondere dinanzi al tema della inutilizzabilitá della prova illegittimamente acquisita. L’introduzione di tale istituto da parte del legislatore ha imposto la formazione della prova, cuore pulsante del processo penale, nella sua sede naturale – il dibattimento – nel pieno contraddittorio tra le parti e nel piú ampio rispetto delle legali regole probatorie. Il discorso de quo ruota inevitabilmente attorno al rispetto delle forme, tanto importanti da assurgere a sinonimo di garanzia. Ogni forma imposta dal legislatore non può che tradursi in una scelta di valore. Ogni scelta, che può sembrare un mero adempimento meccanico, ha nel suo intimo una profonda scelta di principio. Esigere il rispetto delle forme equivale ad esigere un principio. Al contrario, non rispettare le forme equivale a ledere i valori fondamentali. Essendo il processo penale costituito da forme, pretendere che vengano rispettate è l’unica possibile via da intraprendere affinchè siano tutelate quelle garanzie e quei diritti fondamentali irrinunciabili. Il processo penale è lo strumento mediante il quale ricerchiamo la veritá di un accadimento storico. Corrispettivamente, il compito delle parti del processo consiste nel rievocare, attraverso l’istruzione probatoria, il reale svolgimento delle circostanze, al fine di offrire al giudice il quadro su cui fondare un convincimento razionale sulla colpevolezza dell’imputato, al di lá di ogni ragionevole dubbio. All’esito del dibattimento, compito del giudice sará quello di decidere esclusivamente sulla base delle prove “legittimamente acquisite”. Qualora l’accertamento non consenta di raggiungere un sufficiente livello di certezza processuale, il legislatore precisa che il criterio che dovrá ispirare il giudice sará quello espresso dalla massima garantista “in dubio pro reo”, imponendo il proscioglimento dell’imputato, ex art. 530 c.p.p.

Tornando alla patologia della prova, una delle questioni più controverse della disciplina della inutilizzabilitá rimane quella che concerne la sorte delle prove la cui acquisizione é stata propiziata fonti conoscitive inutilizzabili. Immaginiamo, ad esempio, che grazie ai risultati di intercettazioni telefoniche illegittime siano riusciti ad individuare nuove utenze da captare, ovvero che una dichiarazione estorta dalla polizia giudiziaria sia utilizzata per disporre successivamente quello che in gergo si chiama OCP (osservazione controllo pedinamento). Ciò che seriamente siamo in dovere di domandarci è cosa accade quando un elemento di prova inutilizzabile viene utilizzato per acquisirne altri e, più specificamente, se in capo a questi gravi o meno un vizio. La risposta risiede nell’istituto della “inutilizzabilitá derivata” che presuppone un bilanciamento di equilibri tra due esigenze diverse che da sempre governano la disciplina delle prove. Da una parte viene in rilievo l’importanza di garantire un accertamento giudiziario che sia completo ed efficiente, dall’altra il dovere fondamentale di tutelare quei diritti costituzionalmente garantiti che troppo spesso vengono arginati e calpestati per far prevalere la ricerca della veritá processuale [C. Conti, Il volto attuale dell’inutilizzabilitá: derive sostanzialistiche e bussola della legalitá, in Diritto penale e processo, 2010].

Ma è davvero corretto rincorrere ad ogni costo la veritá processuale anche a dispregio del diritto di difesa, alla libertá, all’equo processo ed alla tutela dei diritti piú in generale?

Una parte della dottrina, che protende per una risposta positiva a questo quesito, considera pienamente utilizzabile quel sequestro, ad esempio, conseguente a perquisizione illegittima in virtù del canone “male captum bene retentum“. Al contrario, chi ritiene di dover agire nel rispetto delle forme e nella piena garanzia dei diritti fondamentali, accoglie la teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, secondo cui l’illegittimitá della perquisizione ricade necessariamente sul susseguente sequestro, viziandolo e rendendolo invalido. Il primo orientamento richiamato, che affonda le sue radici nella teoria del “male captum bene retentum” – elaborata dal giurista Franco Cordero, negli anni sessanta – muove da un’argomentazione secondo cui non vi è alcuna relazione giuridica tra perquisizione e sequestro, poichè la consecutio tra la ricerca della prova ed il provvedimento con cui la stessa è vincolata al processo non è necessariamente espressione di un vincolo di dipendenza giuridica bensì è una sequenza storica, cioè un mero susseguirsi di atti non legati da una connessione giuridicamente rilevante [F. Cordero, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, pag. 158]. Dunque, non appare possibile che la inutilizzabilitá derivata sia in grado di investire un’attivitá come la perquisizione, considerata non una prova bensì mera attivitá, e che per di piú possa ricadere sul mezzo di prova atto all’apprensione del bene poiché non é considerato connesso al primo. Il secondo orientamento, che si contrappone a quanto fin ora esposto, oltre ad essere figlio di autorevole dottrina [C. Conti, Accertamento del fatto e inutilizzabilitá nel processo penale, Padova, 2007, pag. 142], è stato avallato da un’importante sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione [Cass. SS. UU., 27 marzo 1996, Sala, in Foro it., 1996, II, pagg. 473-478], che ha riconosciuto l’esistenza di una forte connessione giuridicamente rilevante e funzionale tra perquisizione e sequestro; concezione diametralmente opposta al primo orientamento enunciato che considera come la inutilizzabilitá dell’atto antecedente non si ripercuote sull’atto successivo, a prescindere dalla forza del legame che li lega. Quest’ultimo orientamento, che muove dalla teoria dei “frutti dell’albero avvelenato” (di derivazione statunitense “Fruits of the poisonous tree doctrine”), nasce dall’esigenza di escludere la prova non soltanto nei casi in cui costituisce il risultato diretto di una violazione bensì anche quando da escludere è una prova c.d. “derivata”, figlia di una prova viziata.

Tutto ciò premesso, affinché un processo possa definirsi “giusto” è fondamentale il rispetto delle forme, che parte dall’operato del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. Essi hanno il dovere di operare nel rispetto delle norme, tenendo una condotta ineccepibile, specialmente sotto il piano formale. Il rispetto delle forme, oltre ad essere necessario alla tutela delle garanzie del cittadino, è l’elemento essenziale per la formazione della prova scevra da contaminazioni e, dunque, attendibile. Se una prova si è formata nella più ampia legalitá può entrare a far parte del compendio probatorio del giudice, senza contaminare la decisione in fase di giudizio. Il ruolo fondamentale é svolto dai divieti probatori, posti a garanzia tanto dell’imputato quanto dell’intero procedimento. Dunque, rintracciamo nell’istituto della inutilizzabilitá il cardine su cui poggia tutto il sistema probatorio. Posto che il principio di legalitá è il file rouge che attraversa tutto il procedimento probatorio, è necessario considerare ed esigere il rispetto delle regole probatorie non solo con riferimento al risultato ma partendo dal modo con cui questo si ottiene, costruendo “percorsi di garanzia nell’attivitá investigativa, espungendo dal materiale conoscitivo, prima, e decisorio, poi, del giudice tutto ciò che – per quanto significativo e fors’anche decisivo – risulti frutto di captazione di modi non conformi alle regole di formazione della prova” [G. Spangher, “E pur si muove” : dal male captum bene retentum alle exclusionary rules, in Giur. cost., 2001, pag. 2829]. Certo è che la prioritá da difendere in un procedimento che voglia essere teso il piú possibile verso la veritá storica, oltre alla repressione del crimine e l’assicurare delle prove – spesso, a tutti i costi – al procedimento penale, passa sicuramente per la tutela e la garanzia di quelle norme garantite a livello fondamentale, una fra tutte è l’art. 111 Cost., baluardo della difesa non solo dell’imputato ma della più ampia correttezza processuale. Affinchè la veritá storica, quella a cui aspira l’avvocato, il giudice, l’interprete del diritto, sia il più possibile sovrapponibile e coincidente con la veritá processuale è necessario che vengano rispettate le norme sancite tanto dal codice di rito quanto quelle della Carta costituzionale. Tali norme regolano la raccolta, l’ammissione e l’acquisizione del dato probatorio, partendo dalle modalitá mediante la quale questo viene rinvenuto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria fino ad arrivare al suo ingresso nel processo con la fase dibattimentale. L’acquisizione della prova nel rispetto della legalitá processuale diventa la condizione necessaria affinché all’imputato sia garantito il “giusto processo”.

In ultima analisi, qualora vi siano prove da escludere dal panorama processuale perché acquisite in presenza di divieti probatori disciplinati direttamente dal codice di rito, piuttosto che evincibili dal diritto penale sostanziale ovvero dalla Costituzione, il richiamo all’istituto della inutilizzabilitá appare una inevitabile fonte di garanzia processuale.

di Roberta Brega